In “Le cose di prima” di Eduardo Savarese (minimum fax) il protagonista,Simeone, un ragazzo malato di distrofia muscolare, e con una “eccedenza di vita”, percorre un complicato itinerario di formazione, tra l’amicizia amorosa con una coetanea depressa, una relazione erotico-sentimentale con un celebre soprano, il rifiuto di esperienze da condividere con altri “disabili”, una madre iperaffettiva e la straziante nostalgia del Padre in fuga (in Medio Oriente). In Palestina un vecchio frate lo invita a una morte metaforica, “felice”, in cui spogliarsi del proprio io. Nel finale canta davanti al pubblico del monastero francescano, “sciolto dai condizionamenti della malattia, dalla vergogna di non essere all’altezza” e soprattutto finalmente “presente a se stesso, in quell’istante, in quel luogo”. Riuscirà così a liberarsi delle “cose di prima”, come Caravaggio di ruderi e rovine. Lo stile sobrio dell’autore inframmezza la storia , in modo “calvinianamente” felice (e quasi per raffreddarla un poco), con scambi dotti di mail sulla fisica delle particelle (che – tutte – condividono un destino comune) e sui buchi neri (che possono scavarsi passaggi in un altro universo ma senza più poter tornare al proprio).